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AION
Scuola di Psicoterapia Analitica

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L'archetipo del guaritore ferito
di Ivana Guercilena


Dott.ssa Ivana Guercilena
Psicologa, Specializzanda presso la scuola di Psicoterapia Analitica Aion di Bologna.

L'archetipo del guaritore ferito

Non chiederci la parola che squadri da ogni lato
l'animo nostro informe, e a lettere di fuoco
lo dichiari e risplenda come un croco
perduto in mezzo a un polveroso prato.
Ah, l'uomo che se ne va sicuro,
agli altri ed a sé stesso amico,
e l'ombra sua non cura che la canicola
stampa sopra uno scalcinato muro!
Non domandarci la formula che mondi possa aprirti,
sì qualche storta sillaba e secca come un ramo.
Codesto solo oggi possiamo dirti,
ciò che non siamo, ciò che non vogliamo.
(Non chiederci la parola, Eugenio Montale)
Il termine archetipo deriva dal greco antico ὰρχέτυπον che sta a significare immagine primigenia.
Come indicato da C.G. Jung in "Gli archetipi dell'inconscio collettivo" (1934-54): "L'espressione "archetipo" si trova già in Filone Giudeo (De opificio mundi I.69) con riferimento all'immagine di Dio nell'uomo.
Così pure in Ireneo (Adversus hereses II.7, 5), dove si legge: "Il creatore del mondo non fece queste cose a partire da sé stesso, ma le trasse da archetipi estranei".
In Hermetica Dio è chiamato "la luce archetipica".
In Dionigi l'Areopagita l'espressione si trova ripetutamente, come nel De caelesti hierarchia II.4: "gli archetipi immateriali", e così pure nel De divinis nominibus I.6.
A dire il vero, in sant'Agostino l'espressione "archetipo" non si trova, ma se ne scorge l'idea; così nel De diversis quaestionibus, 46: "Idee originarie... che non sono state create... che sono contenute nell'intelligenza divina..." (Jung, 1934-1954).
In "L'uomo e i suoi simboli" C.G. Jung inoltre afferma che proprio nel sogno e nelle visioni si può avere l'apparizione diretta dell'archetipo, in quanto in essi ricorrono spesso elementi non individuali e non ricavabili dall'esperienza personale del soggetto, quelli che Freud chiamava "resti arcaici".
Quindi l'archetipo si manifesterebbe in una tendenza istintiva a formare delle rappresentazioni di uno stesso motivo innato, di una stessa immagine primordiale, pur nelle loro variazioni individuali anche sensibili (C.G. Jung, 1967).
L'archetipo può essere o solo potenzialmente insito nella struttura psichica o essere attualizzato nel momento in cui entra nel campo della coscienza e si presenta come immagine archetipica, rappresentazione archetipica, o finanche come "processo" archetipico in quanto esso non ha soltanto un modo statico di manifestarsi in un'immagine primordiale, ma anche un modo dinamico-processuale.
Nella loro natura di processo gli archetipi possono essere definiti come pattern tipici di reazione, cammini ereditati che influenzano l'atteggiamento cosciente, modelli primordiali di comportamenti umani.
Quindi gli archetipi sono per l'individuo forme esistenti a priori e se essi abbiano mai avuto origine è un quesito metafisico a cui la psicologia non può dare risposta (Jacobi, 1944).
In considerazione del fatto che una ben nota espressione degli archetipi, per quanto in questa forma appositamente coniata e trasmessa nel corso di lunghi periodi essi siano già sottoposti ad una elaborazione cosciente, sia il mito e la fiaba, nell'affrontare il tema archetipico del guaritore-ferito vorrei partire dal contributo che ci giunge dai miti di Chirone e Persefone.
Il mito di Chirone
Chirone era uno dei centauri, esseri per metà uomo e per metà cavallo che vivevano sul monte Pelio della Tessaglia, in Grecia.
Mentre tutti gli altri centauri nacquero dall'unione di Issione con Nefele, Chirone venne generato, invece, dall'unione di Crono con Filira, figlia di Oceano.
Egli nacque metà uomo e metà cavallo, perché per amare Filira nascondendosi alla moglie Rea, Crono, il padre, si trasformò in stallone.
La natura di Chirone era ben diversa da quella selvaggia degli altri centauri: era saggio, benevolo, esperto di medicina e di altre arti.
Il mito lo collega ad Apollo, Asclepio, Achille, Giasone ed Eracle.
Era amico di Apollo, il quale gli insegnò ad usare l'arco.
Quando Apollo ebbe da Coronide il figlio Asclepio, lo affidò proprio a Chirone perché lo istruisse sull'arte della medicina.
Chirone seguendo il mito, avrebbe allevato anche Achille, figlio di Peleo e Teti, istruendolo nell'arte di cavalcare, cacciare, suonare il flauto e curare ferite.
Infine educò anche Giasone al quale insegnò la medicina, come a tutti i suoi allievi.
Causa della morte di Chirone fu una lancia avvelenata col sangue dell'Idra scagliata da Eracle nella lotta contro i centauri e che per sbaglio colpì il suo ginocchio.
Eracle, angosciato, si adoperò per curare il vecchio amico in preda ad atroci dolori, ma nulla riuscì contro il potente veleno dell'Idra.
Chirone in quanto immortale, non sarebbe perito, ma alla fine riuscì ad ottenere la morte scambiando la sua immortalità con la mortalità di Prometeo.
La narrazione mitologica sottolinea il paradosso di un guaritore, ferito a sua volta, che non può guarire sé stesso.
Al contempo fornisce l'immagine di un guaritore che come espresso nelle atroci sofferenze subite da Chirone, non solo non risulta immune dalla sofferenza, ma si dimostra un essere ferito che è entrato in contatto profondamente con la propria sofferenza.
Tale ferita non solo sta nella compiutezza della vita umana ma sta anche all'origine della propria chiamata per il guaritore.
Riportando le parole di Aldo Carotenuto nella sua opera "Lettera aperta a un apprendista stregone":
"...sicché la tua scelta è proprio tua; nasce da un tuo bisogno, antico, precocissimo. Non un'offesa o una violenza, ma qualcosa che ti è stato negato - che agli albori della vita è la violenza più devastante; una lacuna, un vuoto, la mancanza di un elemento essenziale nella tua dieta affettiva - per esempio della presenza costante e avvolgente di una figura materna che ti desse l'idea o l'illusione di essere sul serio l'ombelico del mondo o almeno del suo mondo.
Insomma un non - evento della tua personale preistoria, che però ha lasciato la sua traccia indelebile nella tua personalità allora in formazione.
Non una cicatrice, ma una ferita ancora aperta, non rimarginata.
Ma tu sai, caro il mio Apprendista Stregone, che a proposito di quella ferita io mi servo volentieri di un gioco di parole, peraltro assolutamente legittimo sul piano etimologico: è una "ferita", ed è una "feritoia", un minuscolo varco che ti consente di tenere d'occhio il tuo mondo interiore, di scrutare e indagare la parte più misteriosa e segreta di te stesso, la parte "sommersa".
E a questo punto vorrei ricordarti che nel tuo caso (nel nostro caso) il sarcastico invito del Vangelo di San Luca "Medice, cura te ipsum" finisce col coincidere col socratico motto "Nosce te ipsum"... Ma questo è un discorso che deve restare tra noi, perché se si sa in giro che tu personalmente sei un soggetto da psicoterapia proprio come i tuoi futuri pazienti, c'è il rischio di incrementare già abbastanza stereotipi caricaturali dello psicoterapeuta più bisognoso di cure del suo paziente...
Guai allo psicoterapeuta che non cresce coi suoi pazienti, perché se è vero che attraverso i pazienti egli cura sé stesso, è altrettanto vero che egli cura i pazienti attraverso sé stesso.
E se lui ha smesso di crescere, che aiuto potrà dare al paziente?... " (Carotenuto, 1998).
Quindi è la ferita del guaritore la via d'accesso al suo potere terapeutico.
L'immagine del guaritore ferito rappresenta innanzitutto il riconoscimento dentro di sé di tutti quegli aspetti di cui il paziente è portatore in quel momento.
Il terapeuta è chiamato a vivere al contempo l'altro polo dell'archetipo e diventare così colui che non guarisce, bensì accompagna nel suo viaggio il paziente e favorisce l'attivazione del polo guaritore insito in lui.
Questo potrà essere possibile perché si è fatta esperienza del dolore e lo si è attraversato e perché la ferita, come un anello che non si chiude mai totalmente, diventa quella necessità, quella spinta all'Altro e alla relazione entro cui, affidandosi al potere creativo della stessa, guaritore e ferito costituiscono una diade e al contempo un'unità che li trascende e li cura.
Il Mito di Persefone
Persefone anticamente era venerata in due modi, come fanciulla o Kore e come regina degli Inferi.
Unica figlia di Zeus e Demetra, Persefone era una giovane dea bellissima che il mito rappresenta come una fanciulla spensierata che raccoglieva fiori e giocava con le amiche.
Così intenta la ragazza, all'improvviso Ade emerse col suo carro dalle viscere della terra, la rapì e la portò nell'oltretomba per farne la propria riluttante sposa.
Demetra disperata per la perdita della figlia e adirata con Zeus che aveva acconsentito al ratto, rese la terra infruttuosa, così che per salvare il genere umano Zeus dovette scendere a patti e mandò Ermes a riprendere Persefone.
Tuttavia Ade prima di lasciarla le diede alcuni chicchi di melograno, che lei mangiò, stabilendo così secondo la legge del destino, che ella avrebbe fatto ritorno.
Zeus poi per conciliare l'amore materno con quello del marito, stabilì che Persefone avrebbe vissuto per due terzi dell'anno con la madre e l'altro terzo con Ade.
In seguito Persefone divenne regina degli Inferi.
Quando eroi ed eroine della mitologia greca si recavano nel regno dei morti, Persefone faceva loro da guida.
Il mito mostra come da fanciulla ancora inconsapevole dei propri desideri e delle proprie forze, "virginea", tutta volta al mondo della superficie, alla realtà esterna, Kore (altro nome con cui è: conosciuta Persefone) venga improvvisamente rapita e portata nel mondo degli Inferi, nel mondo dell'inconscio.
Kore e Presefone sono infatti due volti che convivono in un unico personaggio: la ragazza innocente e la regina degli inferi.
Se in un primo tempo ne rimane sopraffatta, "crescendo", una volta scesa nelle profondità di sé stessa ed esplorato il suo interno, può acquisire la capacità di muoversi tra conscio e inconscio e di mettere anche gli altri in comunicazione con il loro mondo profondo, guidandoli infine alla comprensione di quanto vanno scoprendo in esso.
Il mito suggerisce in questo caso le potenzialità insite come guaritore in colui che - rapito e violentato dalla forza dell'inconscio - ne ha fatto poi ritorno è con sé ha portato la ricchezza di tale esperienza fecondante per metterla anche a servizio degli altri.
Il guaritore-ferito, grazie alla sua discesa esperienziale, vede il coraggio di chi sta attraversando il buio e la luce che è nascosta in esso.
Questa luce è quella dell'autenticità, della sincerità con sé stessi, perché la "malattia" rende sinceri.
Così il guaritore-ferito che sa guardare senza paura la vede questa autenticità e la ama.
Vede il seme nascosto nel buio del terreno e non solo l'energia che in quel momento è ritratta su sé stessi, avida e bisognosa.
Non teme di assistere al travaglio, ma pur riconoscendone il dolore, gioisce, perchè crede nella vita racchiusa in quella morte, anche quando il paziente non ci crede più.
Così come il mito di Persefone suggerisce l'idea del guaritore-guida, inteso come colui che ha assunto la capacità di viaggiare tra il mondo infero e supero, tra buio e luce, Aldo Carotenuto in "Discorso sulla metapsicologia" (1982) ricorda che è proprio dalla sofferenza attraversata, dalla malattia, che possono scaturire dalle profondità dell'inconscio risposte creative.
Risposte non solo limitate alla possibilità curativa verso sé stessi, ma anche l'eventuale capacità di comunicare le proprie riflessioni emerse da questo viaggio esperienziale, così che l'Altro possa fruirne, nella consapevolezza e rispetto delle singole individualità.
La scissione dell'archetipo guaritore-ferito
Prendendo spunto da un articolo sull'Ombra analitica (A. Guggenbiihl, "Elementi distruttivi nell'analisi" in "The Psychotherapist's Shadow" in The Reality of the Psyche, New York 1968), si intende qui portare la riflessione anche su potenziali aspetti distruttivi e di inflazione nel processo analitico.
Questi aspetti potenzialmente iatrogeni si manifestano ogni qual volta prevalga la scissione dell'archetipo guaritore-ferito: quando cioè il terapeuta diviene unicamente il medico, sano e forte, mentre il paziente è costretto a sostenere solo la parte dell'essere debole e ferito.
In questi casi vi potrà essere la tendenza del guaritore a proiettare sul paziente l'altro polo dell'archetipo, quello del ferito, così che il primo tenterà di colmare la scissione dell'archetipo dominando il paziente in una posizione nettamente asimmetrica.
Inoltre la polarità guaritore-ferito può essere accentuata e sommata alla polarità conscio-inconscio, quando l'analista viene a rappresentare la coscienza e il paziente l'inconscio.
Ma quanto più si lotta verso la luce, tanta più oscurità viene costellata, cosicché nell'analista lo sforzo per diventare cosciente e aiutare il paziente nella stessa direzione, fa sì che il proprio inconscio venga costellato in modo più deciso.
Paradossalmente tanto più il terapeuta diventa conscio tanto più diviene inconscio, in quanto più luce si forma, più ombra avremo come conseguenza.
Il terapeuta può andare, quindi, incontro al rischio di identificarsi con la figura archetipica del falso profeta.
D'altro canto, i terapeuti, gli analisti, in cui l'archetipo guaritore-ferito non è stato scisso e che vivono quindi a contatto con la propria debolezza e ferita, rimangono ricettivi alle continue sollecitazioni del paziente, così da rendersi conto di come i problemi del paziente costellino i propri e viceversa.
In tal modo questi non lavorano soltanto sul paziente ma anche su sé stessi.
Nel terapeuta la risoluzione dei propri aspetti d'Ombra non può avvenire mediante l'autoanalisi, in quanto più questi scruta, analizza le manifestazioni del suo inconscio, più cieco rischia di diventare.
Ciò può avvenire perché è il terapeuta stesso che potrebbe tendere a osservare da punti non nuovi, trovandosi così immerso in un feed-back positivo, dove le razionalizzazioni dell'autoanalisi riuscirebbero a neutralizzare le fugaci percezioni delle zone oscure del suo essere.
L'analista necessita allora di una relazione che possa rivelargli chi egli è veramente e ciò è qualcosa che ha a che fare con un'apertura attiva e appassionata verso ciò che gli viene incontro.
Egli deve essere disposto al confronto, deve essere scosso e uscendo dalla posizione di colui che conosce deve arrivare al socratico "non so".
Riassumendo...
Partendo dal contributo offerto dal mito di Chirone e dal mito di Persefone l'Autrice si propone di comunicare la fondamentale importanza della ferita personale e del proprio percorso conoscitivo e trasformativo interiore come spinta motivazionale e possibilità di efficacia terapeutica, che può creativamente realizzarsi allorché il dialogo conscio-inconscio con sé stessi e nella relazione con l'Altro da sé continui, preservando la totalità delle due polarità dell'archetipo guaritore-ferito.
Bibliografia
  • Carotenuto A., Lettera aperta ad un apprendista stregone Bompiani, 1998.
  • Carotenuto A., Discorso sulla metapsicologia, Bollati Boringhieri, 1982.
  • Guggenbiihl A., Elementi distruttivi nell'analisi, (1968), in "The Psychotherapist's Shadow in The Reality of the Psyche, New York.
  • Montale E., Ossi di seppia, (1925), Mondadori, 2016.
  • Jacobi J., La psicologia di C.G. Jung, (1944), Bollati Boringhieri, Torino, 1973.
  • Jung C.G., Gli archetipi dell'inconscio collettivo, (1934-1954), Bollati Boringhieri, 2008.
  • Jung C.G., L'uomo e i suoi simboli, (1967), Ed. TEA, 2008.
AION: Scuola di Psicoterapia Analitica
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