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Dott.ssa Michela Bianconi Psicologa Psicoterapeuta.
L'arte del Fare Anima: il metodo della Psicologia archetipicaPsicologia archetipica: siamo fluidità psichica e materia di sogni...Scrivere non sempre è facile. Per lo meno: scrivere sinteticamente, quando si ha a che fare con la Psicologia archetipica, con l'anima e con le sue incredibili, infinite sfumature, non può esserlo. Perché anima chiama anima. Sfugge amabilmente a qualsiasi tentativo di definizione. E, come acqua fresca che si cerchi di prendere a mani nude, non può essere afferrata se non abbassando la temperatura con una forzatura che, in un modo o nell'altro, ne altera la struttura molecolare. La cristallizzazione è qualcosa che non si addice alla profondità e alla ricchezza della psiche. Con la sua rigidità, infatti, rischia di congelare gli immaginari in forme taglienti o fin troppo granitiche. Forme che, a lungo andare, non possono che creare malessere, bloccando di fatto quella fluida espressività tipica dell'anima. Del resto, come diceva anche il poeta e drammaturgo inglese William Shakespeare: siamo fatti della stessa sostanza di cui sono fatti i sogni. E i sogni, ognuno di noi lo sa, preservano la propria evanescenza quasi gelosamente, spesso svanendo con la stessa facilità con cui giungono. Apertura della finestra psichica E così, nel tentativo di raccontare alcune delle parole chiave del metodo archetipico, piuttosto che perseguire l'idea di essere esaustive, cercheremo di istillare curiosità. Di attivare dubbi, istigando l'anima a incontrare l'anima e invitando il lettore a guardare sempre qualsiasi definizione come l'intelaiatura di una bella finestra. Lasciarla rigidamente chiusa è come osservare una foto, un'istantanea del mondo che, però, non muta mai scenario. Aprirla, invece, è utilizzarla come trampolino di lancio per accedere all'altrove. Tenendo, dunque, sempre presente il presupposto che la psiche è estremamente varia e diversa in ogni momento, cercheremo di perseguire una prospettiva per cui la sua espressione debba essere sempre facilitata in modo particolare, accurato, ma allo stesso tempo libero. Il modo poetico che corrisponde all'incontro terapeutico. Il metodo analitico-archetipico in terapia Ampiezza, libertà, poesia, non significano che quello archetipico non possegga una metodologia propria. In terapia è importante fare affidamento su una solida e ampia teoria che, proprio perché ampia, non imbriglia i contenuti del paziente in schemi troppo rigidi, rischiando di fuorviarli e forgiarli in base alla teoria di partenza. E che, nonostante ciò, comunque fornisce delle indicazioni molto solide, chiare ed efficaci, delle mappe sicure, delle linee di lettura, dei codici che rinviano alla profondità. Di seguito troverete, in maniera molto sintetizzata (ma speriamo più poetica possibile per non svilire la bellezza e la complessità dell'anima) alcuni dei concetti base della Psicologia archetipica. Vi invitiamo comunque ad approfondire la lettura, rinviandovi a una bibliografia che troverete in fondo all'articolo. La via del "Fare Anima". Il principio base della Psicologia archetipica Chiamate, vi prego, il mondo "la valle del fare anima". Allora scoprirete a che serve il mondo. (John Keats). Il principio basilare della Psicologia archetipica, così come della Psicoanalisi in generale, consiste nell'attribuire l'origine dei processi psichici alla psiche, malattia compresa. In principio è l'immagine; scrive a tal proposito James Hillman nel suo testo sulla Re-visione della Psicologia (1983). Prima viene l'immagine e poi la percezione; prima la fantasia e poi la realtà... L'uomo è in primo luogo un artefice di immagini e la nostra sostanza psichica è formata da immagini; il nostro essere è un essere immaginale, un'esistenza nell'immaginazione. Siamo davvero fatti della stessa sostanza di cui sono fatti i sogni. Il concetto di immagine per Jung Tale concezione deriva dagli antecedenti studi di C.G. Jung il quale riteneva che lo psichico meritasse di essere considerato quale fenomeno in sé. Per l'autore, l'essere psichico è, infatti, l'unica categoria dell'essere di cui possiamo avere conoscenza diretta. E ciò perché nulla può essere conosciuto se non appare come immagine psichica. Nemmeno il mondo sembra esistere se non assume la forma di un'immagine. La psiche si presenta quindi come immagini fantastiche, un'intuibilità di attività vitali espressa in immagini (Jung, Spirito e vita, pag. 351). Il concetto di immagine per Hillman Al contrario, Hillman utilizza l'espressione "immagini fantastiche" in senso poetico e considera le immagini come i dati basilari della vita psichica, aventi origine autonoma, ricchi di inventiva, spontanei, compiuti in se stessi e organizzati in configurazioni archetipiche. Le immagini fantastiche sono per lui allo stesso tempo le materie prime e i prodotti finiti della psiche. E costituiscono il modo privilegiato d'accesso alla conoscenza dell'anima, intendendo per "anima", prima di tutto, più che una sostanza, una prospettiva, una visuale sulle cose. La prospettiva archetipica dell'anima Questa prospettiva è riflessiva, media gli eventi e determina le differenze tra noi e ciò che accade. Un fattore indipendente dagli eventi nei quali siamo immersi. L'anima è inafferrabile e, malgrado tutta la sua intangibilità e la sua indeterminatezza, possiede una elevatissima importanza nelle gerarchie dei valori umani. Per cui essa viene assai spesso identificata come principio vitale o principio divino. Hillman definisce l'anima:
Alle radici dell'anima, troviamo gli archetipi, modelli più profondi del funzionamento psichico, che governano le prospettive attraverso cui vediamo noi stessi e il mondo. L'autore li descrive, più che come delle cose, come delle metafore che obbligano a un discorso di stile immaginativo. Ne consegue che la scelta di una prospettiva archetipica in Psicologia porta a una visione della fondamentale natura e struttura dell'anima secondo modalità immaginative. Una visione che giocoforza privilegia l'immaginazione quale mezzo per accostarsi agli interrogativi fondamentali della Psicologia. Archetipi e Dei Un aspetto è fondamentale degli archetipi: essi hanno un effetto possessivo ed emotivo. Abbagliano la coscienza fino a renderla cieca verso la propria posizione. L'archetipo, infatti, è in grado di creare e influenzare il nostro modo di vedere noi stessi e il mondo. Per cui esso può essere anzitutto paragonabile a un dio. E gli dèi, più che ai sensi o all'intelletto, ci dice Hillman, sono accessibili alla visione immaginativa e all'emozione dell'anima. È attraverso gli archetipi che possiamo raccogliere gli eventi che ci capitano e scoprirvi un senso e una profondità che vanno ben oltre le nostre abitudini e le nostre bizzarrie individuali. Ed è attraverso la prospettiva archetipica che abbiamo modo di collegare quanto avviene dentro ciascuno di noi a quanto avviene a tutti gli individui in ogni luogo e tempo. Essa permette una comprensione psicologica a un livello collettivo. Una Psicologia politeistica Ovviamente, non esiste un unico archetipo. Ogni evento psicologico può infatti essere osservato da molti punti di vista, tutti egualmente validi e poggianti su una base archetipica. Per questo è possibile definire la Psicologia archetipica come una Psicologa politeistica, per rispondere a una necessità psicologica. La multilateralità della natura umana richiede, infatti, il più ampio spettro possibile di strutture fondamentali. Sta in questo l'aspetto rivoluzionario della Psicologia archetipica. Partendo dal presupposto che non possiamo collocare noi stessi in nessun altro luogo fuorché nelle nostre immagini, siamo quindi chiamati a nutrire le immagini. E ciò perché esse sono la psiche. La psiche che chiede una voce con cui parlare e che necessita che ogni ricchezza insita in ogni suo singolo aspetto venga liberata. Solo così, possiamo conoscere noi stessi e il nostro modo di vedere il mondo. Psicologia archetipica, la via del "FARE ANIMA" Come afferma lo stesso Hillman: siamo chiamati a offrire una via e a trovare un posto per l'anima nel campo che le è proprio, aiutando la psiche a ritrovare la propria natura e a riavvicinarsi al suo essere sostanza sottile. Imparare a permettere alla psiche di guardare se stessa, nelle sue molteplici sfaccettature e senza giudicare, aiutandola a scrutare direttamente nelle essenze archetipiche che la compongono, attraverso una modalità immaginale, cioè attraverso un discorso metaforico. La base poetica della psiche A differenza di molte altre terapie, quella archetipica si muove, infatti, all'interno di ciò che Hillman definisce la base poetica della psiche, cioè la sua realtà metaforica. Essa permette alla psiche stessa di vedersi in trasparenza e vedere una prospettiva più ampia rispetto all'unico punto di osservazione, dato dalla forma in cui l'archetipo si attiva. Stando alle riflessioni di questo autore, quindi, il primo passo della terapia sarebbe quello di riattivare la capacità di parlare la lingua della psiche, una lingua immaginale, fatta di storie e metafore. L'assunzione del punto di vista immaginale è, infatti, essa stessa terapeutica, perché riconduce l'esperienza personale alle trame mitiche che la comprendono (tramite il movimento amplificatorio, cioè nutrendo l'immagine con altre immagini). E, così facendo, la inserisce in una rete di significati vivi e in grado di illuminare tutti gli aspetti. Essa si rivolge a tutto quello che si rivela utile per liberare la potenza dell'immaginario e, in particolar modo, a quelle immagini che, nella specifica psiche, sono bloccate. Oscurate dalla posizione archetipica assunta. Leggere in trasparenza la psiche. Assumere il punto di vista archetipico e immaginale Hillman ci insegna, a questo proposito, che il linguaggio alchemico può rivestire notevole valore per la terapia poiché pur lavorando con materiali naturali, l'alchimia trasformava queste sostanze in fantasie. Essa riconosceva la natura sostanziale della fantasia e l'aspetto fantastico di tutte le sostanze naturali. L'alchimia trasformava e trasforma tutt'ora la prospettiva naturale in prospettiva immaginale. Impariamo, quindi, a leggere in trasparenza ogni aspetto della psiche, a partire da quelli più patologici. Il valore del sintomo Abbiamo un debito immenso verso i nostri sintomi (Re-visione, pag. 137). Sono i sintomi, infatti, i luoghi in cui l'anima può elaborare e convalidare se stessa. Per questo in Psicologia archetipica si preferisce parlare di patologizzazione piuttosto che di patologia, poiché attraverso le nostre patologizzazioni, lasciandoci guidare da esse, possiamo trovare la nostra anima. La patologizzazione in Psicologia archetipica La patologizzazione è un'attività psichica per sé e si manifesta in ciascuno di noi anche senza che vi siano malattie. Essa si manifesta nelle nostre fantasie spontanee. Ogni volta che compare un sintomo, la fantasia lo traduce immediatamente nella sua ipotesi più grave. Si ha allora l'impressione che ci sia un guasto assai più profondo, che nel fondo del nostro essere si stiano accendendo cose che esigono attenzione immediata. Questo accompagnarsi di forza oscura nel profondo, fa sì che l'evento sintomatico diventi il simbolo di qualcosa di ulteriore. La psiche si serve dei nostri sintomi per parlare di altro, per parlare delle proprie profondità. E richiamare attenzione su di esse. Possiamo quindi considerare la patologizzazione come una maniera di raccontare, un modo in cui la psiche parla a se stessa. Uno stile di linguaggio. Perciò non possiamo approcciarci a essa se non seguendo uno stile immaginale, uno stile metaforico, altrimenti rischiamo di bloccare la psiche nelle proprie somatizzazioni, di assecondarla nelle proprie esigenze di letteralizzazione e mascheramento in evento clinico. No. Dobbiamo restituire alla psiche la dignità di esistere come materia immaginale e non come aspetto fattuale. Facciamo un esempio. Evoluzione del concetto di trauma Prendiamo il concetto di trauma, inteso come linearità causa-effetto. All'inizio della Psicoanalisi era consuetudine spiegare le nevrosi con la teoria eziologica, che ne spiegava le cause, situandole spesso in esperienze del passato. Sigmund Freud, ad esempio, che descrive il trauma come il risveglio di un'eccitazione interna occasionato da un evento esterno, ne ricava quella che più tardi prese il nome di "teoria della seduzione", secondo la quale i sintomi nevrotici dei pazienti erano stati causati da un trauma sessuale in età infantile. Egli, quindi, poneva l'attenzione sull'evento e ne riconosceva la valenza patogena. Gradualmente questa teoria fu messa in secondo piano. Freud si rese conto che non si poteva parlare di eventi traumatici in modo assoluto, senza considerare la "sensibilità" del soggetto. Si iniziò quindi a pensare che, affinché vi fosse un trauma in senso stretto, dovevano esserci anche altre condizioni. Una particolare rilevanza l'acquisì allora il concetto di conflitto psichico, che impediva al soggetto di integrare nella sua personalità cosciente l'esperienza che gli giungeva dall'esterno. Il trauma come linearità causa-effetto Successivamente l'azione del trauma venne scomposta in più elementi e fatta risalire all'azione combinata di due momenti: il primo momento del trauma, in cui il bambino subisce un approccio sessuale da parte dell'adulto, e un secondo momento del trauma, collocabile dopo la pubertà, in cui un evento rievoca, per qualche tratto associativo, la seduzione avvenuta in passato, dandole in qualche modo una denominazione, un significato. E innescando, così, una nevrosi. In Introduzione allo studio della psicoanalisi, è proprio a questo secondo momento che viene riconosciuta la valenza più traumatica. Ultima evoluzione, infine, fu il considerare una qualunque situazione di impotenza, in cui l'Io si sente indifeso e incapace di compiere azioni fisiche atte a porre fine alla tensione interna, il prototipo della situazione traumatica. Si venne così a creare una simmetria tra pericolo esterno e pericolo interno. Nonostante la quale, però, Freud continuò comunque a cercare le cause dell'isteria nel passato, in eventi concretisticamente avvenuti. Una credenza, questa, facilmente rintracciabile in tutti gli sviluppi della sua teoria. Il trauma come idea archetipica Ci si muove sempre, quindi, all'interno di causalità unidirezionale che, per spiegare un fenomeno complesso, come quello del trauma, segue la legge della causa-effetto, ricostruendo il fenomeno stesso come evento deterministico. Una teoria, questa, che Hillman fa risalire a un'idea archetipica ben specifica, intendendo per idea archetipica una potenza paragonabile a una possessione divina. Ogni idea può dunque venire paragonata a un dio, che agisce sulla psiche provocando una fascinazione e un timore reverenziale, il che significa che, se leggiamo noi stessi attraverso una fantasia riduttiva e monoteistica, cioè attraverso un'unica idea, riduciamo la nostra vita psichica a essere proprio quella fantasia. Ad esempio, se leggiamo la nostra vita per il tramite della fantasia del trauma, l'intera vita psichica si identificherà con la storia traumatica di malattia, e la psiche resterà inchiodata alla fissità di questa visione. Lo aveva già scritto Jung, proprio parlando di Freud: Freud non si chiese mai perché fosse costretto a parlare continuamente della sessualità, perché questo pensiero lo dominasse talmente. Non si rendeva conto del fatto che la sua "monotonia d'interpretazione" esprimeva una fuga da se stesso, o da qualunque lato di lui che potrebbe essere definito "mistico" (Ricordi, sogni, riflessioni, pag. 194). Il pericolo di accedere a una sola idea. Psicologia archetipica e idee L'anima, però, non riesce a fare a meno di idee. Nella speranza di riuscire a vedere se stessa, essa ricerca concetti, intuizioni, princìpi, persone a cui aggrapparsi. Un po' come se l'ideazione fosse un'esigenza istintuale, una pulsione o una funzione di fondamentale importanza per la sua sopravvivenza. Se non ne trova, la psiche, affamata, finisce per nutrirsi di qualsiasi cosa abbia a disposizione. Lei, che dovrebbe poter trarre il proprio nutrimento da materiale quanto più possibile simile alla sua essenza, in modo da poterlo assimilare (da ad + similis = far simile), convertire nella propria sostanza, impadronirsi, far proprio, rischia allora di perdersi nutrendosi sempre e solo della medesima. Finendo con l'identificarsi con essa. Invece, l'implicita connessione tra l'avere idee con cui vedere e il vedere le idee stesse suggerisce che quante più idee abbiamo, tanto più vediamo e, quanto più profonde esse sono, tanto più profondamente vediamo. Le idee, inoltre, generano altre idee, dando vita a nuove prospettive per vedere noi stessi e il mondo. Tutto ciò implica che uno dei principali doveri della Psicologia e dello Psicoterapeuta, la cui prima preoccupazione è la psyches therapeia o cura dell'anima, è quello di riconoscere il bisogno di idee che l'anima ha. Le idee come modi di vedere e conoscere Uno psicologo serve Psyche elaborandone le idee, ed egli non è tale se non ha elaborato un logos della psyché, una propria rete d'idee psicologiche che tentino di rendere giustizia alla varietà e profondità dell'anima… Ciò su cui deve concentrarsi la nostra attenzione di psicologi è la loro comparsa nella psiche, il loro significato in quanto eventi psicologici, il loro effetto e la loro realtà psicologica come esperienze pertinenti all'anima. Per noi le idee sono modi di conoscere le cose, le prospettive. Le idee ci danno occhi, ci fanno vedere. La stessa parola idea rivela il suo intimo rapporto con la metafora visiva del conoscere, essendo connessa sia con il latino "videre" sia con il tedesco "wissen" (conoscere). Le idee sono modi di vedere e di conoscere, o di conoscere mediante un'attività di visione interiore. Le idee psicologiche sono modi per vedere e conoscere l'anima, talché un mutamento nelle idee psicologiche significa che c'è un mutamento rispetto all'anima (Hillman, Re-visione della psicologia, 1975, pag. 214). Tante idee, dunque, per parlare di psiche nel modo che a psiche più si confà. In fondo, come diceva Eraclito, la conoscenza dell'anima non può che essere infinita. Per quanto la si possa percorrere, non si troveranno mai i suoi confini. Secondo la Psicologia archetipica, nessuna idea sull'anima e dell'anima può essere esclusa: perciò siamo indotti a considerare, all'interno di un costrutto teorico forte e importante come quello costruito da Hillman, anche le altre teorie, leggibili come altre idee, nate da specifici aspetti di anima e in grado, pertanto, di parlare di specifici aspetti di anima. Per questo, accanto agli assunti base della Psicologia archetipica e della Psicologia complessa o Psicologia analitica di Jung, all'interno della Scuola di Specializzazione Atanor, noi studiamo anche l'alchimia, l'astrologia, la mitologia. Studiamo tecniche Yoga, pratiche di Psicoterapia come Musico - e Arteterapia, Sandplay Therapy, Gestalt-Analisi... Perché come ogni idea nasce dalla psiche e descrive la psiche, così ogni teoria può essere fruibile per liberare e riscoprire il potenziale archetipico sottostante. Trovare la via verso se stessi Eppure è così: ciascuno, nel suo profondo, è come una chiesa con i muri adorni di affreschi festosi. Nella prima fanciullezza, quando lo splendore è ancora sincero, c'è troppo buio là dentro per poter vedere i dipinti, poi, mentre l'ambiente si fa più chiaro, ecco arrivare le sue ricchezze dell'adolescenza, le false nostalgie, il pudore pieno di sogni, e questi intonacano una parete dopo l'altra. Qualcuno s'addentra nella vita per lungo e per largo, e non sospetta l'antico splendore sotto quella dimessa povertà. Ma beato colui che lo sente, lo trova e lo scopre in segreto. Si fa un dono grande. Troverà così la via verso se stesso. (Rainer Maria Rilke, Il diario fiorentino, 1898) Bibliografia James Hillman - Parte prima
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