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Psicologia Transculturale:
Sapere chi siamo per sapere chi e' l'altro - di Maria Castiglioni


La Psicologia Transculturale offre la possibilita' di addentrarsi in quella 'regione dell'ovvio' costituita dalla cultura in cui siamo quotidianamente immersi e che, come afferma Linton, e' per noi come l'acqua per i pesci.
Scopo precipuo della Psicologia Transculturale e' l'approfondimento del concetto di cultura e del suo utilizzo nella relazione psicoterapeutica.
Diceva Wallace Stevens che ci sono almeno 13 modi per descrivere un merlo.
Di definizioni di cultura sicuramente ce ne sono molte di piu' (descrittive, storiche, normative, psicologiche, strutturali, dinamiche, psicoanalitiche, sociologiche...).
Piu' che interrogarci su che cosa sia la cultura e perderci nelle sue mille definizioni, la domanda vera e':
La cultura e' davvero importante nella nostra vita? E se davvero la cultura e' cosi' importante allora posso usarla per curarmi, per curare?
Mi avvicino alla cultura, per difetto, nella sua mancanza.
Per fare questo ci trasportiamo alla fine del '600, a Basilea dove un giovane alsaziano studente di medicina, Johannes Hofer, sostiene una dissertazione su una malattia, un'affezione molto grave che affligge i mercenari svizzeri:
Inappetenza, Inedia, Svenimenti ne compromettevano seriamente le prestazioni.
Molti di loro perdevano i sensi solo a sentire suonare il richiamo delle mandrie (Kuhe Reyhen), al punto che ne fu proibita qualunque riproduzione!
La nostalgia e' la malattia dell'impossibilita' del ritorno; e', etimologicamente (nostos - ritorno - a'lgos - dolore) il dolore per il mancato ritorno ai luoghi di origine.
Quindi e' piu' facile che si percepisca che cosa rappresenti per noi la cultura quando ci viene a mancare, che non quando ci siamo immersi.
Come per i pesci di Linton, che si accorgono della mancanza dell'acqua solo quando sono sul banco del pescivendolo.
Cultura come l'acqua, una specie di 'placenta extrasomatica' in cui navighiamo, cultura come cio' che ci costituisce profondamente, il nostro 'kit' per la sopravvivenza materiale e affettiva e simbolica.
Ma qui si aprono due ordini di problemi:
  • La cultura e' di per se' un fattore positivo?
  • Come intercettarla nell'interazione terapeutica al punto da farla divenire una risorsa?
Che la cultura abbia sempre e comunque un significato positivo non ha trovato, nella storia della psicologia, tutti d'accordo.
Nel 1929 Freud scrisse un saggio "Il disagio della civilta'".
Il titolo originale tedesco pero' suonava: Das Ungluck in der Kultur, letteralmente l'infelicita' nella cultura tradotto in inglese con Civilization and his Discontents (da cui il titolo italiano).
Freud, in questo testo, si sofferma a lungo sull'effetto inibitorio della cultura.
Dove sta il disagio, l'infelicita'?
Freud attribuisce alla civilta' due funzioni fondamentali:
la protezione dell'umanita' dalle avversita' della natura e la regolazione dei rapporti tra soggetti (Freud usa sempre 'uomo', 'uomini' che io traduco con termini meno connotati sessualmente. Anche il Maestro non era scevro dai condizionamenti 'culturali' del suo tempo!).
Freud, che ama i poeti, richiama Schiller che aveva scritto:
Fame e amore tengono insieme il mondo.
Ora sia l'uno che l'altro aspetto della civilta' richiedono, nella elaborazione freudiana, un sacrificio pulsionale.
Infatti sia il lavoro (che addomestica la natura) sia l'amore (che cerca di addomesticare l'altro) esigono una rinuncia a se' e ai propri desideri.
La civilta', la cultura crea un evidente paradosso:
per soddisfare i propri bisogni l'essere umano si e' consorziato, ma proprio questo consorziarsi produce una riduzione delle possibilita' di soddisfare i propri desideri.
Se il saldo sia positivo oppure negativo ognuno di noi puo' dirlo; sicuramente non ci sono alternative, ne' per l'indio dell'Amazzonia, ne' per la giornalista della BBC, qualunque sia l'evoluzione della propria cultura, su cui per altro Freud ironizza (e' evoluzione parlarsi per telefono? Ma se non ci si allontanasse non ce ne sarebbe bisogno! E' evoluzione allungare la vita se la si vive da infelici e un po' malaticci? Etc.).
Quindi Freud attribuisce alla cultura una funzione repressiva degli impulsi.
Quali sono gli impulsi/pulsioni che la cultura maggiormente reprime?
L'Eros e l'aggressivita', Eros e Thanatos (pulsione di vita e pulsione di morte) cosi' come li aveva concettualizzati nel suo testo "Al di la' del principio del piacere" del 1920.
La sessualita' e' repressa nella famiglia, nelle sue scelte oggettuali (eterosessualita') e nelle sue manifestazioni (primato della genitalita' a fini procreativi).
L'aggressivita' e' minacciata dal conformismo, dalle convenzioni o dalla sopravvalutazione della sua forza (il gruppo terroristico viene immediatamente annientato prima di darsi il tempo di capire se vuole trattare o anche quando vuole trattare, v. la scuola di Beslan).
Inoltre Freud attribuisce alla civilta' il formarsi del nostro senso di colpa (attraverso la costituzione del Super Io), un senso di colpa che spesso si dimostra esagerato in quanto il solo fatto di desiderare di compiere un certo atto ci mette nella condizione di voler essere puniti.
La civilta' occidentale riesce a compiere cose efferate senza sentirsi in colpa, o forse si, ma deve esorcizzarlo, questo senso di colpa.
Infatti fa la guerra ma la chiama umanitaria, fabbrica bombe ma le chiama intelligenti: quindi il senso di colpa inconscio e' sempre all'opera, e Freud non aveva visto male.
Cosi' come non aveva visto male quando, alla fine del suo testo sul disagio della civilta', si proclama "imparziale" rispetto al destino di questa.
Essere per la sua evoluzione o appoggiare i suoi piu' feroci critici?
Anche le donne, che con il loro amore hanno posto il fondamento della civilta' - accenna in un passo - remano contro perche' fanno prevalere le ragioni dell'amore su quelle dell'evoluzione, cioe' rappresentano gli interessi della famiglia e della vita sessuale.
Vorrebbero sempre gli uomini con loro e i loro bambini, andarsene a passeggiare al Prater di Vienna, farsi invitare all'Opera... (potremmo osservare che forse le donne volevano gli uomini a casa per evitare che, uscendo, facessero troppi danni...).
Imparziale e disilluso, Freud nella risposta alla lettera che Einstein gli aveva indirizzato nel 1932 e dove gli chiedeva di spiegare perche' l'uomo arrivasse a spaventosi livelli di distruzione, si appella alla crescita di un atteggiamento sempre piu' 'civile', dove l'intelletto dovrebbe giungere a dominare la vita pulsionale, e ad interiorizzare l'aggressivita'.
Jung, dal canto suo, ha della cultura una visione ben diversa, dove valorizza tutte le produzioni culturali - arti-filosofia-religioni - e la vita simbolica come straordinaria risorsa terapeutica ("lasciare libero campo al gioco della fantasia, pittura, disegno").
La considerazione del radicamento culturale come antidoto alla nevrosi la troviamo in Jung a proposito dei cattolici che - annota Jung - ricorrono molto meno allo psicologo, di quanto facciano i protestanti (quanti pazienti praticanti abbiamo?).
Jung nel suo testo "La vita simbolica" del 1939 raccomanda di non sottrarre ai credenti il loro sistema di credenze, riconoscendo la funzione 'salvifica', noi potremmo tradurre in 'reticolare', che tale sistema ha nella vita di una persona.
Jung esortava espressamente i credenti a restare presso la loro fede, a non allontanarsene.
La ritualita' e il dogma sono per Jung fattori di sanita' mentale.
Sarah Kane, una drammaturga inglese suicidatasi giovanissima, nell'ex ergo al suo testo di teatro scrive:
"Un orrore cosi' profondo puo' essere frenato solo da un rito".
Rito, vita simbolica, le rappresentazioni che intercorrono nelle relazioni tra persone, le 'formazioni di significato' che sono proprie di ciascuna cultura, costituiscono il grande bacino di risorse culturali di ogni soggetto e di ogni societa'.
Forse siamo ritornati al punto di partenza:
potremmo allora chiederci se e' possibile fare un uso 'moderato' della civilta', cosi' da mitigarne gli effetti repressivi (che costringono alla sublimazione, alla mortificazione degli affetti e dei desideri) e, nel contempo, coglierne gli aspetti maggiormente arricchenti e positivi?
Se rispondiamo affermativamente ecco che si pone il secondo problema:
come intercettare questo 'parametro culturale' nell'ambito del processo terapeutico?
Come avere uno sguardo che tenga conto della cultura, nei suoi aspetti di condizionamento, ma anche in quelli di radicamento, riequilibrio, potenzialita' evolutive?
Mi permetto di suggerire a chi chi fa psicoterapia con una sensibilita' transculturale di tenere presente questi due elementi:
  • la psiche abita la cultura e la cultura abita la psiche (come ricorda M. Ilena Marozza);
  • ad ogni tipo di cultura corrisponde il suo caos (come ricordano numerosi autori).
Trovo molto fecondo addentrarmi, durante il percorso psicoterapico, nei miti culturali dei pazienti, che possono concernere il mondo delle relazioni interpersonali, l'ambito professionale, lo spazio della cura di se'.
In ognuna di queste aree ritrovo sedimentate credenze, abitudini costumi familiari e del gruppo locale di appartenenza (e' interessante rilevare le differenze tra le coppie 'miste' - italiane ma di regioni o citta' diverse - e come queste influenzino l'educazione dei figli, i rapporti interfamiliari e quanto possano essere causa di conflitti e/o di evoluzione reciproca).
Anche il senso di colpa e' strettamente connesso al proprio sistema di credenze e occorre tenere presente questo sistema per trovare una modalita' di alleviarlo che non sia estranea al mondo culturale del soggetto.
Il caos: chi viene in terapia e' spinto dalla necessita' di 'maneggiare' il proprio caos, di rendere 'familiare' cio' che culturalmente percepisce come estraneo a se'.
Ogni cultura si fonda su un sistema di opposizioni che distinguono il proprio dall'altro, il familiare dall'estraneo.
Il malessere psichico e' l'alterita', l'estraneo che si fa presente in noi: in questo senso una psicoterapia e' una grossa esperienza trans-culturale.
Riconoscere come nostro cio' di cui ci vergogniamo e che rifiutiamo a causa di condizionamenti culturali (ad. es. la fragilita', l'insicurezza, l'aspetto fisico, nostro o dei nostri familiari, in una parola la nostra parte oscura o malata o perdente), riappropriarci di cio' da cui ci siamo allontanati (per un processo di alienazione culturale), ritrovare la forza nelle/delle nostre origini, depurate, per quanto e' possibile, degli aspetti maggiormente opprimenti: questo processo avviene grazie ad una serie di passaggi che definirei 'insight culturali'.
Insight e', letteralmente, 'vedere dentro'. In psicologia si riferisce a quel momento di apertura, intuizione su di se' che avviene di solito grazie ad uno sguardo esterno che ci aiuta a 'guardarci', nel bene e nel male.
L'insight culturale e' l'intervento che in terapia aiuta il/la paziente a rintracciare, nel suo malessere, il filo della sua storia individuale, familiare, comunitaria, grazie al quale puo' trovare quell'aggancio, quello spunto che rimuove un'incrostazione, una difesa, e libera energie nella riconciliazione con il proprio ancestro, la famiglia, la propria storia culturale.
Spesso l'insight avviene attraverso, come suggerisce Rovera, 'la problematizzazione dell'ovvio', o il soffermarsi su un particolare vocabolo utilizzato, e sulle sue risonanze nella cultura familiare e della comunita' di appartenenza del/della paziente.
Un'ulteriore annotazione per chi fa terapia e' quello di tenere conto del parametro culturale puo' costituire un fattore di agevolazione di un transfert positivo.
La personalizzazione dell'intervento terapeutico che consegue all'utilizzo dell'elemento culturale, nella storia di vita del/la paziente, 'costringe' il/la terapeuta a tener conto del 'villaggio mentale' dell'altro, prima di procedere affrettatamente alla catalogazione dei suoi enunciati...
Favorisce quell'attimo di sospensione che puo' diventare rivelatore.
Mi permetto in conclusione di dare qualche avviso ai naviganti.
Cerco di non ricorrere alla nozione di 'personalita' di base', cosi' come formulata da Kardiner, perche' mi sembra un po' schematica, anche se corrispondeva (anni '30-40) alla tendenza, allora in voga, di 'tipicizzare' comportamenti e caratteristiche di personalita'.
Cosi' come mi sento di mettere in guardia da un uso meccanicistico del parametro culturale (si comporta cosi' perche' proviene da una famiglia borghese, oppure perche' ha ascendenze ebraiche etc.).
La rilevanza degli elementi culturali deve venire alla luce insieme al paziente, non suo malgrado, non dobbiamo utilizzare la cultura come un 'grimaldello interpretativo'.

Per concludere vorrei ricordare che un processo terapeutico e' - come dice Rosalba Terranova - un 'viaggio nella cultura dell'altro', e che, come in tutti i viaggi, occorre essere rispettosi del paese ospitante.

Bibliografia:
A. Prete (a cura di): Nostalgia, Ed. Raffaello Cortina, 1992
S. Freud: Il disagio della civilta' e altri saggi, Ed. Bollati Boringhieri, 1971
Carl G. Jung: La vita simbolica, Ed. Bollati Boringhieri, 1993
AA.VV.: Psicologia transculturale, Ed. Guerini Studio, 1994
G.G. Rovera: L'approccio transculturale in psichiatria in Atti del Convegno SIPT, 12 maggio 1984
M. Ilena Marozza: La dimensione culturale come via di complessita' per la psicologia del profondo in Psichiatria e Psicoterapia Analitica, vol. VIII, N.3/1989
A. Kardiner: L'individuo e la sua societa', Ed. Bompiani, 1965
R. Terranova: Io culturale, luogo del pensiero, luogo dello sviluppo in Avanzamenti in Psicologia Transculturale. A cura di R. Terranova e P. Inghilleri, Ed. F.Angeli, Milano, 1991