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Psicoanalisi... A cosa serve? Perché diventare Analisti?
di Silvia Elena Leguizamon


Dr.ssa Silvia Elena Leguizamón
Membro titolare in funzione didattica dell'Associazione Psicoanalitica Argentina, membro ordinario della Societa' Psicoanalitica Italiana, full member of International Psychoanalytical Association, Centro Psicoanalitico di Bologna - Via delle Lame 79, Bologna.
Dopo ventisei anni passati insieme alla Psicoanalisi mi sembra interessante ripensare e scrivere in merito alla mia disciplina.
Credo che queste 3 domande siano l'essenza della pratica analitica.
Che cos'e' la Psicoanalisi? A cosa serve? E perche' diventare Analisti?

La psicoanalisi e' nata dall'intuizione clinica di Freud, che ha sviluppato un importante lavoro sull'inconscio, attraverso una grande capacita' di comprensione della sofferenza umana.
L'attualita' del suo pensiero si basa sul fatto che e' nato dalla clinica.
La teoria che lo stesso Freud aveva chiamato metapsicologia, e' lo strumento teorico che ci permette pensare ai nostri pazienti con un permanente scambio tra clinica e teoria, giacche' la psicoanalisi nasce dalla medicina, per cui la clinica diventa la sua unica guida.
Freud stesso aveva accennato al fatto che le grandi ferite dell'umanita' sono state la scoperta copernicana, che ci fa rendere conto che la terra non e' il centro dell'universo; la scoperta dell'evoluzionismo darwiniano che riduce l'antropocentrismo dell'epoca all'essere discendente dalla scimmia.
La terza sarebbe la scoperta che l'inconscio non ci rende liberi ma ci condiziona, per cui non siamo liberi di agire secondo la nostra volonta' conscia.
Questo ultimo punto e' al centro del nostro mestiere, la pratica psicoanalitica.
Il nostro compito si riduce a rompere il circolo chiuso di chi ripete un destino di sofferenza, per riportarlo davanti alle scelte di vita che lo rendono piu' libero e padrone di se' stesso, dando cosi' un sollievo al suo dolore.
Il dolore psichico e la sofferenza sono la guida del nostro lavoro, ed attraverso la ricerca del passato, che diventa ripetizione del presente nel transfert della seduta analitica, e attraverso l'ascolto delle cose non dette, e anche attraverso il nostro controtransfert, possiamo metterci in contatto con il pathos dei nostri pazienti per dare loro la svolta e gli strumenti per uscire dalla ripetizione patologica degli stessi disagi che li mettono nella condizione della non uscita, nel circolo vizioso della ripetizione della sofferenza.
La psicoanalisi nata da Freud, prende avvio dalla prima topica dove egli parlava di "far conscio l'inconscio", diciamo che ricordare era il centro del compito analitico.
Questo riguardava la nevrosi di transfert e le psiconevrosi della cura classica.
Cio' costituiva il limite della analizzabilita'.
Oggi andiamo oltre questi limiti, e con le teorizzazioni dello scisso, ci sono delle nuove tematiche che ci permettono di trovare il limite nel paziente e nella sua capacita' di tollerare i cambiamenti.
Possiamo anzi pensare all'incontro con l'oggetto come fondante dello psichismo.
Tuttavia ritengo sia fondamentale pensare alle pulsioni del soggetto e al potere trasformatore delle mozioni pulsionali che gli permettono di crearsi e reinventarsi.
Se pensiamo alla tecnica non possiamo dimenticare l'importanza fondamentale del setting esterno che ci permette di creare una cornice di lavoro, ma soprattutto di quello interno, che riguarda la posizione stessa dell'analista, i suoi riferimenti teorici e la sua esperienza, che gli permettono di esercitare la sua funzione analitica anche nei casi piu' difficili, dove il paziente trasgredisce al setting della cura classica, pur non impedendo all'analista di svolgere il proprio lavoro analitico, grazie al proprio setting interno che gli da il punto di riferimento.
Far conscio l'inconscio, cioe' cercare attraverso il transfert, nel presente della seduta, la ripetizione traumatica di un passato che blocca il contatto creativo con la realta' del presente per costruire un futuro ed impadronirsi della propria vita.
Il transfert come ripetizione del passato edipico, narcisista e arcaico o pre-verbale, ci permette di capire la realta' psichica del paziente che tende a riprodurre nella realta' esterna, attraverso le sue proiezioni della scena traumatica, rimanendo intrappolato nella coazione a ripetere di un passato angosciante che non comporta altro che sofferenze.
Il nostro compito analitico, oltre il setting esterno, sia di una o di quattro sedute, sul lettino a vis a' vis, e' quello di rendere sollievo alla sofferenza del paziente.
Perche' ancora Freud? Perche' la sua creativita' e la sua intuizione clinica ci hanno dato la base, il linguaggio comune a noi tutti analisti? e perche' nei suoi accenni clinici e teorici la sua intuizione ci ha lasciato le traccie di tante cose ancora da scoprire, uno spunto per continuare la ricerca?
Anche se noi oggi sappiamo che la sua clinica e' modello della nostra pratica, la cura classica (dei nevrotici) rimane alla base di tutte le teorizzazione odierne.
Come dico in una mia relazione: "Che cosa significa per me "l'identita' analitica", credo che cosi' come tecnicamente M. Baranger ci insegna che tra "l'ascolto" e "l'interpretazione" si trova la "mente dell'analista" al lavoro, nella stessa maniera credo che tra lo "schema di riferimento teorico" e il "setting interno" si incontra la nostra "identita' analitica".
Con cio' intendo dire che lo "schema di riferimento teorico" e' l'insieme di conoscenze ed elementi a nostra disposizione, da cui attingiamo per sviluppare il nostro compito per crescere, ogni giorno, come analisti.
Tutto questo si gioca dentro noi stessi, si intreccia con le nostre differenti istanze psichiche, le nostre strutture interne e la nostra stessa soggettivita'.
Questo sia come identificazioni con i nostri analisti, supervisori, professori, colleghi di lavoro o Autori; o attraverso l'acquisizione diretta di rappresentazioni delle idee lette o ascoltate.
...che questo sia il cammino dell'idealizzazione, cammino che dopo ognuno di noi dovra' disfare "smontando il potere della idealizzazione" (Marucco, 2005) affinche' le parole o figure altrui che possono esercitare "effetti paralizzanti..." possano "...recuperare la spinta trasformatrice, neogenetica della pulsione" (Marucco, 2005).
Riuscire a far si' che queste teorie si mettano in gioco in uno spazio transizionale, come oggetti usati perche' non diventino colonizzazione sotto il titolo di moda, se non, invece, che crescano nell'ambito dell'illusione-delusione che conduce alla creativita' primaria (Winnicott, 1967).
Credo che le teorie debbano attraversare tutte le istanze e le strutture della nostra organizzazione psichica perche' le rappresentazioni possano prendere forma, interagire e dialogare dentro di noi smontando l'idealizzazione (Marucco, 2005) e incontrando il suo posto nella nostra soggettivita'.
Da questa posizione possiamo dirci analisti, acquisendo un'"identita'" e agendo attraverso il "setting interno" (M. Alizadi) come strumento privilegiato, nel "campo analitico" (Baranger, 1967) ponendo in gioco la nostra "mente" (M. Baranger, 1987) e la nostra soggettivita' (Marucco,2005).
E da cio', con la stessa "convinzione" di cui parla Freud in "Costruzioni in psicoanalisi" (1937), lavorare con i nostri pazienti e uscire da ogni seduta senza perdere l'integrita' psichica (Semi, 2006) ma arricchiti (Bolognini, 2004) dall'esperienza vissuta."
(Presentato nel Centro Psicoanalitico di Bologna, sede della Societa' Psicoanalitica Italiana, il 6 dicembre 2006)