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Intervista a Giandomenico Montinari: Psicologia e istituzioni, formazione e lavoro
di Redazione


Dott. GIANDOMENICO MONTINARI
Psichiatra e psicoterapeuta, vive e lavora a Genova.
Si occupa fin dagli anni Settanta di terapia comunitaria delle psicosi e di conduzione e formazione di gruppi di lavoro psichiatrici.
Direttore della Scuola di Specializzazione in Psicoterapia Istituzionale.


Intervista a Giandomenico Montinari

1) Gentile dott. Montinari, qual e' stata la motivazione principale che l'ha spinta a fondare la Scuola di Specializzazione in Psicoterapia Istituzionale, la quale offre un tipo di formazione unica nel suo genere nel panorama italiano?
Le motivazioni che potrei darle sono piu' di una: che la Psicoterapia Istituzionale e' l'ambito in cui io, nella mia vita professionale, ho fatto le esperienze piu' forti, piu' innovative, piu' coinvolgenti; che e' cio' di cui il mondo delle comunita' e della riabilitazione psichiatrica ha piu' bisogno; che, tra le psicoterapie, e' quella che ha piu' ampi margini di crescita teorica e metodologica...
Ma, se vuole compendiare queste motivazioni in un'unica risposta, le posso dire che e' uno dei pochi campi della Psichiatria e della Psicologia in cui ha ancora pieno diritto di cittadinanza quello spirito di ricerca, quel senso della "frontiera", che animava Freud, Jung e gli altri grandi pionieri della Psicoterapia: un campo sperimentale, insomma, veramente nuovo, in cui quasi tutto e' ancora da inventare, da teorizzare, da far conoscere, a beneficio degli operatori e dei pazienti.
2) Quali sono gli ambiti di intervento di uno psicoterapeuta all'interno di un'istituzione?
Lo Psicoterapeuta Istituzionale, per confrontarsi "ad armi pari" con il polimorfismo della psicosi, deve imparare ad avere un alto grado di polivalenza e quindi saper svolgere compiti molto diversi, da caso a caso e da un momento all'altro.
  1. Deve saper fare psicoterapia nell'istituzione, cioe' saper ritagliare, in maniera duttile e dinamica, il suo setting all'interno di strutture, che raramente o quasi mai sono state concepite per favorire il suo lavoro e che, pur avendo di esso grande bisogno e... richiedendolo, tendono spesso a non integrarlo, a delegittimarlo, a "circoscriverlo" in aree ristrette e non significative.
    Il compito del terapeuta istituzionale e' riuscire a trasformare quella che, di per se', tende ad essere una vera e propria emarginazione (ovviamente difensiva, da parte degli altri operatori), in una dimensione alternativa alla concretezza del pensiero patologico, alla piatta gestione del quotidiano, alle sfide dell'emergenza, una dimensione capace di ricreare, di fronte all'appiattimento della psicosi - reale o simulato che sia -, spazi di lettura inediti e istanze progettuali, strategicamente ben piu' complesse di quelle dettate dall'immediato contenimento dei sintomi.
  2. Deve fare terapia con l'istituzione, cioe' dare valenza psicoterapeutica a tutto cio' che viene fatto al suo interno.
    Sia lavorando in prima persona, sia affiancando i collaboratori, sia supervisionandoli regolarmente, deve trasformare interventi, che di solito vengono fatti a scopo di semplice intrattenimento, in autentiche e complete terapie.
    Si tratta di saper dare senso anche alle piccole cose.
    Prendiamo per esempio un gruppo di discussione: puo' essere fatto in vari modi, ma uno dei meno validi e' quello di farlo diventare una "psicoterapia di gruppo" (in cui ognuno parla dei suoi problemi e non dell'oggetto della discussione).
    Dato che solo chi sa fare psicoterapia, e' capace di non fare psicoterapia quando non e' il caso, sara' compito dello psicoterapeuta istituzionale far diventare il gruppo di discussione uno strumento di crescita per il paziente, muovendosi continuamente tra il supporto cognitivo alla comprensione di cio' che succede nel mondo e il rafforzamento dell'identita' del paziente come persona pensante: lavorare a "basso livello" (a partire, cioe', dal punto in cui il problema si pone) per raggiungere i livelli piu' elevati di funzionamento personale.
    Sara' anche utile poi che il terapeuta istituzionale conosca e possibilmente padroneggi almeno alcune delle principali tecniche terapeutico - riabilitative (dall'Arteterapia alla Teatroterapia, dalla Socioterapia alle Terapie Cognitive, dalla Terapia Psicomotoria alle tecniche a mediazione corporea, fino alla Danza-Movimento-Terapia, ecc.) e sensibilizzi ad esse gli altri operatori, nonche' piloti (se e' il caso) o integri nel modo migliore gli apporti dei terapisti espressivi, anch'essi a loro volta "emarginati" dal gruppo.
  3. Deve fare terapia all'istituzione, cioe', in veste di supervisore, di direttore o di coordinatore, con modalita' diverse a seconda del ruolo che si trova a rivestire, saper fare lievitare i gruppi di lavoro, non attraverso interpretazioni astruse e incomprensibili, ma gestendo sapientemente le tensioni tra sottogruppi, che si presentano come contrapposizioni distruttive tra orientamenti divergenti e facendole evolvere in dinamiche strutturanti, in grado di dare al gruppo consistenza ed energia.
    Approcci "paterni" e "materni", "verbali" e "non-verbali", momenti di "azione" e momenti di "riflessione", "rapporto col dentro" e "rapporto col fuori" sono i poli costitutivi di una serie di altrettante dialettiche che hanno bisogno di essere adeguatamente ripristinate, per implementare la vita comunitaria ed espandere lo spazio mentale di pazienti e operatori collassato dalla psicosi.
3) La Scuola di Psicoterapia Istituzionale e' volta a formare terapeuti in grado di lavorare con pazienti medio-gravi "istituzionalizzati". Una paura che spesso vivono e temono i giovani terapeuti, soprattutto coloro che hanno un passato come educatore nelle comunita' o comunque un'esperienza di lavoro nelle Istituzioni, e' quella di essere "risucchiati" dall'istituzione stessa e/o di assorbire la "patologia" dei degenti (psicosi indotta).
Cosa puo' rispondere ai giovani colleghi che vivono questo dubbio?
Quali gli strumenti e/o le risorse a cui appellarsi per tutelarsi da questo possibile fenomeno?
Il lavoro nelle strutture psichiatriche effettivamente risucchia e, come lei dice, comunica patologia, quando, come succede praticamente sempre, viene condotto in maniera debole, ingenua, non commisurata all'ampiezza e alla potenza distruttiva delle forze messe in gioco dalla malattia psichica.
Il contatto approfondito con la patologia, oltre ad essere drammatico di per se', perche' implica - letteralmente - problemi di vita e di morte del paziente, e' pericoloso per l'operatore, perche' ingenera, in chi non e' adeguatamente protetto, modalita' di agire e di pensare, che, strutturalmente, riflettono le modalita' dell'utenza e configurano una vera e propria patologia indotta, come ho detto nel mio libro "La Malattia Istituzionale dei Gruppi di Lavoro Psichiatrici" (Ed. Franco Angeli, 1999).
Ebbene, tutto questo viene semplicemente ignorato, da tutti, a cominciare dagli psichiatri, tanto che il lavoro riabilitativo con pazienti cronici viene considerato poco piu' che una sine cura, una sorta di "badanza", che non richiede alcuna preparazione, alcuna professionalita'.
Inutile dire che si tratta di un errore gravissimo, le cui conseguenze si vedono negli acting out distruttivi che i pazienti, prima o poi, compiono, e nella psicosi indotta che, con determinismo subdolo ma inesorabile, si instaura nei gruppi di lavoro.
L'adeguata comprensione delle dinamiche in gioco e la valutazione realistica (al di la' dell'apparenza) di quello che succede e' determinante, ma richiede che, fin dall'inizio, venga dato al lavoro un profilo alto, in senso sia tecnico sia umano.
Solo cosi' ci si mette al riparo dai rischi e si trasforma il lavoro istituzionale in una esperienza stimolante e addirittura piacevole, come succede tuttora a me e a moltissimi di quelli che hanno lavorato e lavorano con me nelle strutture che dirigo o supervisiono.
Va precisato pero' a questo scopo che non basta una generica formazione, ma e' necessaria una formazione specifica, che dia effettivamente gli strumenti per entrare nel mondo interiore e nella problematica esistenziale dei pazienti psicotici.
E non e' facile.
4) I neo psicologi e futuri psicoterapeuti spesso si formano con davanti l'unica prospettiva plausibile del lavoro autonomo nel proprio studio privato.
Cosa si sente di dire ai colleghi rispetto a quelli che possono essere i vantaggi del lavorare in équipe all'interno di un'istituzione?
Intraprendere oggi il lavoro nello studio privato e', a mio avviso, sempre piu' difficile, almeno da un punto di vista pratico, per motivi che attengono alla legge della domanda e dell'offerta.
Le cause sono molteplici e vanno dall'eccesso di operatori, allo stato di crisi ideologica di alcune scuole importanti, all'immagine un po' appannata di certe forme tradizionali di terapia, alla richiesta esasperata di efficacia e di documentabilita', anche dove questa non e' possibile, che porta il pubblico a considerare il lavoro psicoterapeutico, con i suoi tempi lunghi e la sua scarsa obiettivabilita', scarsamente pagante o addirittura una forma di malpractice.
Tutti questi motivi si traducono in una (relativamente) minore richiesta di prestazioni professionali, che rende, a mio avviso, il solo lavoro privato una prospettiva non facilmente praticabile per un giovane terapeuta, almeno non con le garanzie e le certezze che si potevano avere venti o trenta anni fa.
Le strade oggi sono, sempre a mio avviso, altre e passano quasi tutte per qualche forma di lavoro all'interno di istituzioni (dal centro diurno alla comunita', dall'istituto per disabili al reparto psichiatrico, oltre a tutte le istituzioni non psichiatriche e non terapeutiche), dotandosi pero' degli strumenti per rendere tale attivita' almeno altrettanto ricca e stimolante di quella del proprio studio privato.
Va aggiunto tra l'altro che il lavoro istituzionale con i pazienti medio - gravi mette in contatto diretto con le dinamiche piu' profonde delle persone (dipendenza, autodistruttivita', competizione, ambivalenza, ecc.), quelle stesse che costituiscono l'oggetto della psicoterapia e abitua, col supporto dell'équipe curante, alla loro gestione concreta e in tempi reali, non attraverso interpretazioni ma con azioni parlanti e atti pregni di significato.
E' evidente che una esperienza del genere da' una sicurezza e un'immediatezza che rendono efficace e relativamente facile da condurre la psicoterapia ambulatoriale di un paziente nevrotico, molto piu' che decine di ore di teoria e di supervisione tradizionale.
5) Dr. Montinari, lei ha messo a punto uno strumento diagnostico ossia "Il Metodo Survey" atto a valutare, all'interno di una determinata istituzione, la qualita' delle interazioni di un individuo con il contesto in cui e' inserito, individuando le possibili sovra o sotto-stimolazioni a cui e' sottoposta la persona in un'ottica terapeutica-riabilitativa.
Quali sono le finalita' e le modalita' di impiego di tale strumento?
L'impiego del Survey puo' allargarsi oltre al contesto istituzionale "psichiatrico" e con quali finalita'?
Si, e' una sperimentazione che conduco da sette - otto anni e che si basa su un numero ormai molto elevato di osservazioni.
Il risultato principale che il Metodo permette di ottenere, attraverso l'elaborazione computerizzata di una serie di indicatori, e' quello che ha detto lei: individuare, da una parte, i pazienti sottostimolati che possono e anzi devono essere spinti nel percorso riabilitativo e, dall'altra, i pazienti sovrastimolati, che, al contrario, devono essere protetti, perche' a rischio.
La tendenza dei curanti e' invece quella di "fare di ogni erba un fascio", trattando tutti allo stesso modo, o addirittura, spesso, operando in senso esattamente opposto a quello che, almeno all'interno della mia teorizzazione, viene ritenuto giusto.
Il risultato e' che un buon 30-40% dei pazienti di un gruppo istituzionale hanno livelli di stimolazione inadeguati e sono esposti o ai rischi della sovrastimolazione (possibili acting out, tentativi di suicidio, ricoveri, comportamenti antisociali, ecc.) o, al contrario, ai rischi della sottostimolazione (cronicizzazione dei sintomi, depressione, demotivazione, ecc.).
Il "Survey", oltre ad essere utilissimo in tal senso nella clinica (non solo comunita' e centri diurni, ma anche ambulatori, centri di salute mentale e centri diagnostici e nella psicoterapia privata) rivela sempre nuove e sorprendenti applicazioni, tutte altrettanto interessanti, per esempio nelle strutture penitenziarie, nelle scuole di ogni ordine e grado, negli uffici, nelle aziende, ecc..
E' pero' un discorso molto impegnativo che non puo' essere approfondito in questa sede.
Rimando chi fosse interessato al mio sito www.ilbuconellarete.it, sezione "Il metodo Survey".
6) Quali sono gli elementi che costituiscono e definiscono il setting istituzionale?
Quali gli elementi in comune e le differenze principali tra il setting terapeutico "privato" e quello istituzionale?
In ambedue i casi si tratta di lavorare sulla linea di confine tra la realta' esterna e il mondo interno del paziente, ma con modalita' opposte.
Il terapeuta per psicotici, a meno che non operi all'interno di situazioni psicoterapeutiche programmate come tali dal gruppo di lavoro, non deve essere neutrale, astensivo, allo scopo di provocare la regressione transferale e analizzare le dinamiche, ma, al contrario, avere un'esistenza concreta, coinvolgersi, "fare", portare cose sue all'interno del campo.
Come dice Racamier, deve presentarsi al paziente non come ambasciatore dell'inconscio ma come "ambasciatore della realta'".
La concretezza del sintomo psichiatrico e le difficolta' di simbolizzazione impongono non gia' interpretazioni asettiche ed intellettualizzanti, ma forme di azione altrettanto concrete dei sintomi, pur senza cadere nell'agito e senza perdere la prospettiva finale che e' sempre quello della crescita.
L'entita' di questi snodi, cosi come la profondita' di certe dinamiche, pero', sono ingestibili da parte del singolo terapeuta e richiedono una ripartizione su piu' persone tra loro coordinate: questa e' l'altra importante differenza.
Tenendo conto di queste e di altre peculiarita', si arriva a concepire il lavoro del gruppo istituzionale (pazienti + curanti) come una sorta di continua drammatizzazione del rapporto con la malattia.
Frammentazione e recupero dell'unita', fusionalita' e presa di distanza, concretezza e simbolizzazione, rapporto col dentro e rapporto col fuori sono altrettante metafore del recupero di un io sano a partire dalla destrutturazione patologica, che devono essere incorporate nelle modalita' di gestire la vita interna dell'istituzione, nell'articolazione del lavoro di équipe e nell'organizzazione di tutto quello che viene fatto: per esempio il lavoro di équipe deve essere suddiviso in varie sotto - équipe, che rendano conto materialmente e, per cosi dire, "visivamente" della necessita' di compiere certi processi (magari antitetici, come accogliere e redarguire) e integrare certe contraddizioni, di muoversi contemporaneamente a livelli diversi di complessita' e di simbolizzazione.
Il tutto viene assorbito da parte dei pazienti, proprio in virtu' del loro pensiero concreto e della loro tendenza alla frammentazione/globalizzazione dei vissuti e all'identificazione proiettiva, per cui essi "si appropriano" di tutto quello che viene fatto (da loro e dagli altri) nel gruppo curati - curanti, concepito appunto, come dicevo prima, per contenere e integrare contraddizioni e parti scisse, all'interno di un progetto unitario e sano.
Inutile dire che la consapevolezza di tutto cio' deve esser presente gia' nei curanti.
Tenere alto, come dicevo prima, il livello di lettura di cio' che succede e quindi instaurare con i pazienti relazioni destinate a diventare adulte, non e' un discorso ideologico o moralistico, ma strettamente tecnico, perche' anche il piu' esperto di noi, in realta', non sa mai con sicurezza quanto i comportamenti patologici dei pazienti siano "reali", cioe' espressione diretta della malattia, e quanto siano "costruiti", come effetto di un funzionamento sano all'interno di una strategia malata; cosi come nessuno di noi sa a che livello il paziente si sta muovendo nel campo di tensione tra pensiero simbolico e pensiero concreto.
Il voler sembrare disabile, incapace, al di la' dei limiti effettivi, fa di solito parte di strategie dei pazienti volte a dissimulare le proprie potenzialita' e a scoraggiare gli sforzi dei riabilitatori.
Se il curante crede a quello che il paziente finge di essere (e succede molto spesso, per non dire quasi sempre, anche a me) non si puo' fare molta strada, se non altro perche' il paziente, giustamente, perde fiducia nella professionalita' e nella perspicacia del curante.
Queste strategie e queste metodiche, pero', devono essere conosciute, capite a fondo e sperimentate in prima persona, il che, come ho gia' detto, non e' possibile senza una formazione e un'esperienza assolutamente specifica.

Intervista realizzata dalla
Redazione del Centro HT